Al vaglio della Corte Costituzionale le conseguenze, in termini di spese processuali, derivanti dal rifiuto della proposta conciliativa del giudice del lavoro
Con ordinanza del 22 luglio 2019, la Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, c.p.c., anche in combinato disposto con l’art. 420, primo comma, c.p.c. per violazione degli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).
Il caso da cui trae spunto l’incidente di legittimità è il seguente: nell’ambito di un giudizio promosso da un lavoratore per ottenere il pagamento di differenze retributive, il giudice, anche a fronte della disponibilità espressa in sede di memoria difensiva dalla parte resistente, formulava una proposta conciliativa dell’importo di euro 2.500,00, con compensazione delle spese. Il lavoratore ricorrente, tuttavia, non accettava la proposta. Espletata l’istruttoria, il Tribunale accoglieva la domanda per la minore somma di euro 900,00 e condannava il lavoratore al pagamento delle spese processuali in favore della parte datoriale. La sentenza di primo grado veniva quindi appellata dal lavoratore, il quale si doleva della condanna alle spese, dal momento che era risultato vittorioso nel merito. Secondo i giudici d’appello la disposizione dell’art. 91, comma 1, secondo periodo c.p.c., applicata dal Tribunale, violerebbe il principio di effettività della tutela giurisdizionale e di uguaglianza formale e sostanziale.
Dopo aver ricordato che il legislatore processuale ha da sempre, storicamente, attribuito rilievo alla strutturale diseguaglianza tra le parti nel processo del lavoro, il Collegio rimettente osservava che l’art. 91 c.p.c., laddove consente di condannare alle spese la parte, sebbene vittoriosa, che non abbia accettato una proposta conciliativa di importo pari o superiore a quello riconosciuto nella sentenza, finisce per rendere la scelta di conciliare la controversia non più “libera”, in quanto sanzionata in modo sproporzionato con un aggravio di spese posto a carico del soggetto che, seppur parzialmente, ha comunque ottenuto il riconoscimento del diritto rivendicato: la diseguaglianza economica delle parti, in uno con la disciplina normativa oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale, avrebbe quindi l’effetto di indurre il lavoratore ad accettare una proposta conciliativa anche eventualmente incongrua al solo fine di evitare il rischio di essere condannato alle spese. In definitiva, la norma censurata violerebbe gli artt. 3, 4, 24 e 35 Cost., nonché (per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost.) anche le disposizioni della CEDU e della Carta di Nizza, avendo introdotto un ostacolo reddituale per il diritto di accesso al giudice del lavoratore (ostacolo ancor più grave e rilevante poiché riferito ad un processo – quello del lavoro – in cui vengono in rilievo diritti di rango costituzionale).
La Corte costituzionale, anzitutto, dopo aver ricostruito la ratio e i caratteri principali delle norme in esame, ha sottolineato la differenza che intercorre tra le stesse: mentre l’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. riguarda l’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva della controparte (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 settembre 2017, n. 21109), l’art. 420, comma 1, c.p.c. concerne, invece, l’ingiustificato rifiuto della proposta conciliativa del giudice nel processo del lavoro.
In secondo luogo, i giudici delle leggi hanno ritenuto inammissibile la questione sollevata con riferimento all’art. 91 c.p.c., poiché inapplicabile al caso di specie. Invero, dall’ordinanza di rimessione si evinceva con chiarezza che la proposta conciliativa oggetto del rifiuto, asseritamente ingiustificato, da parte del lavoratore appellante, non era stata formulata dall’altra parte, bensì dal giudice: quindi, per i motivi anzidetti, non poteva trovare applicazione la regola, di carattere eccezionale, contenuta nella disposizione censurata.
Tuttavia, a parere di chi scrive, la parte più interessante (e ad oggi dibattuta) della pronuncia, riguarda il passaggio in cui la Corte ha escluso la possibilità di ritenere applicabile al rito del lavoro la norma di cui all’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., dovendo prevalere su di essa la disciplina speciale di cui all’art. 420 c.p.c.: “anche ove il giudice rimettente avesse in ipotesi ritenuto che la proposta fosse stata formulata, nel caso di specie, (anche) dalla parte convenuta, per aver quest’ultima aderito alla proposta conciliativa del giudice, potrebbe comunque non venire in rilievo l’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ. ove ritenuto non applicabile nel processo del lavoro. Tale disposizione si risolve in una “sanzione” per la parte che agisce in giudizio ed è quindi di dubbia compatibilità – ciò di cui non ha tenuto conto la Corte rimettente – con un processo, come quello del lavoro, che si caratterizza per una serie di norme di favore per il lavoratore, per lo più parte ricorrente, volte a tenere in considerazione la sua strutturale debolezza, anche sotto il profilo economico. Essa, infatti, elevando il rischio della lite per l’attore, e quindi per il lavoratore, parte ricorrente, finirebbe – piuttosto che favorire quest’ultimo – per indurlo a non insistere nel chiedere integralmente quanto dedotto nella domanda a causa del rischio dei costi che sarebbe tenuto a sopportare qualora, accolta parzialmente la domanda, l’esito della controversia fosse meno favorevole (o equivalente) al contenuto della proposta proveniente dall’altra parte”.
Infine, la Corte ha ritenuto del tutto infondate (seppur ammissibili) le censure di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 420, comma 1, c.p.c.: la norma, a differenza dell’art. 91, primo comma, secondo periodo, c.p.c. consente al giudice, ove la proposta conciliativa o transattiva, formulata dallo stesso all’udienza di discussione, non sia stata accettata, di tenere conto in modo simmetrico per ciascuna delle parti in causa, ai fini della sola regolamentazione delle spese, del rifiuto di tale proposta senza giustificato motivo. Tale facoltà, tuttavia, non si traduce nel potere del giudice di condannare alle spese la parte che sia risultata parzialmente vittoriosa (pur in misura equivalente o inferiore all’importo oggetto della proposta non accettata), essendo invalicabile, in difetto di un’espressa previsione normativa in senso contrario (come è, nel rito ordinario, la norma “eccezionale” e derogatoria rappresentata, appunto, dall’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c.), il principio generale della soccombenza: “ne deriva che il potere del giudice del lavoro di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva dallo stesso formulata all’udienza di discussione ai fini della statuizione sulle spese di lite non si traduce altro che nella possibilità di compensarle legittimamente, in tutto o in parte, anche ove non ricorrano i presupposti di cui all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. Peraltro, ciò avviene senza alcuna forma di automatismo, diversamente dall’ipotesi contemplata dall’art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ., in quanto il giudice ha solo la facoltà, e non già l’obbligo, di considerare tale condotta ai fini della decisione sul riparto delle spese processuali. L’art. 420, primo comma, cod. proc. civ. non viola, quindi, gli artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU e all’art. 47 CDFUE), in quanto non pone un ostacolo al lavoratore, pur parte “debole” del rapporto, all’accesso e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale, limitandosi ad ampliare il novero delle ipotesi nelle quali il giudice, motivatamente, può compensare, a fronte di una condotta comunque ingiustificata della parte, le spese di lite”.
Pare dunque che, con questa sentenza, la Corte costituzionale abbia chiarito che:
1) l’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. non possa trovare cittadinanza nel processo del lavoro;
2) l’art. 420, comma 1, c.p.c. consente al giudice di tenere in considerazione, ai fini delle spese, il rifiuto ingiustificato (simmetricamente, tanto del lavoratore quanto del datore) della proposta conciliativa formulata dal medesimo giudicante: ciò, tuttavia, non già per derogare al principio di soccombenza, ma – al più – per addivenire alla compensazione delle spese tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c.
a cura di Elisabetta Sartor – Dottoranda di ricerca nell’Università degli Studi di Padova