Comporto differenziato e soluzioni ragionevoli: la recente pronuncia della Corte di Cassazione sul licenziamento discriminatorio in ragione dell’handicap del lavoratore

La Corte di Cassazione, con sentenza del 31 marzo 2023 n. 9095, si pronuncia sulla natura discriminatoria di un licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto nei confronti di un lavoratore portatore di handicap ai sensi dell’art. 3, co. 1, l. n. 104/1992 (con capacità lavorativa ridotta del 75%). I giudici di legittimità confermano la sentenza della Corte d’appello di Milano che ha qualificato come indirettamente discriminatoria la previsione di cui all’art. 42 del CCNL Federambiente applicato al rapporto di lavoro del lavoratore licenziato. La società datrice di lavoro si opponeva all’interpretazione data dai giudici di merito attraverso due motivi di ricorso entrambi dichiarati infondati in sede di legittimità.

La Corte di Cassazione procede ad una ricognizione delle previsioni contenute nelle fonti normative sovranazionali in materia: la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 21 che sancisce il generale divieto di discriminazioni e art. 26 che riconosce il diritto dei disabili a beneficiare delle c.d. azioni positive), la Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (attuata in Italia con d. lgs. n. 216/2003) e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (approvata dall’Unione Europea con decisione del Consiglio 2010/48/CE).

La motivazione segue il percorso tracciato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Quest’ultima, applicando la definizione di disabilità contenuta nella Convenzione ONU, afferma che la nozione comunitaria di handicap è tale da includere una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile (C. giust. UE, 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, HK Danmark). Secondo la Corte di Giustizia il lavoratore disabile risulta maggiormente esposto al rischio di accumulare assenze per malattia in considerazione della sua situazione di particolare debolezza. Ne deriva la contrarietà al diritto comunitario di una normativa nazionale che preveda il licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto di durata analoga a quella stabilita per lavoratori non disabili. Una simile previsione integra un comportamento indirettamente discriminatorio se non giustificata da una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e proporzionati (C. giust. UE, 18 gennaio 2018, C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero).

Alla luce di tali principi normativi e giurisprudenziali, la Corte di Cassazione afferma che disabilità e malattia non sono situazioni contrapposte. La malattia può essere tanto causa quanto effetto della condizione di disabilità: le eventuali interazioni dello stato patologico con lo stato di handicap del lavoratore devono essere tenute in considerazione nella gestione del rapporto di lavoro. Conseguenza di questa impostazione è l’accertamento della natura indirettamente discriminatoria di una previsione di contratto collettivo che stabilisca, ai fini dell’art. 2110, co. 2, c.c., un periodo di comporto di uguale durata per lavoratori non disabili e disabili. Secondo la Corte di Cassazione, l’approdo interpretativo necessitato dalla normativa Europea trasposta in quella domestica non consente di distinguere la fonte (legislativa o contrattuale collettiva) della previsione della durata del comporto. Rileva esclusivamente l’effetto della mancata considerazione del rischio aggiuntivo di assenze per malattia in cui incorre il lavoratore disabile. Rischio che deve essere tenuto in considerazione nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia.

La Corte di Cassazione conclude per il rigetto del primo motivo di ricorso menzionando il diritto del lavoratore disabile alle c.d. soluzioni ragionevoli ai sensi dell’art. 5 Direttiva 2000/78/CE. Tra queste sembrerebbero quindi rientrare anche le previsioni di contratto collettivo volte ad individuare un periodo di comporto differenziato per i lavoratori con disabilità.

La sentenza si chiude con il rigetto del secondo motivo di ricorso. La Corte di Cassazione richiama i precedenti della giurisprudenza di legittimità in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e al ruolo dell’elemento soggettivo nei giudizi riguardanti l’accertamento del carattere discriminatorio di una condotta del datore di lavoro. Il lavoratore aveva soddisfatto l’onere della prova “agevolato” di cui all’art. 4 d. lgs. n. 216/2003 a norma del quale è tenuto a provare il fattore di rischio e il trattamento meno favorevole, mentre è onere del datore di lavoro allegare e provare circostanze precise, gravi e concordanti tali da escludere la natura discriminatoria della condotta. La Corte di Cassazione ricorda infine che a nulla rileva la mancata conoscenza da parte del datore di lavoro del motivo delle assenze del lavoratore: l’operatività oggettiva delle discriminazioni prescinde dall’accertamento della volontà illecita del datore di lavoro.

A cura di Giovanna Zampieri,
Dottoranda di ricerca in Diritto del Lavoro presso l’Università di Padova

Cass. civ., sez. lav., n. 9095-2023_LLPG