Il Tribunale di Belluno sui lavoratori che rifiutano di vaccinarsi

Grande risalto ha avuto in questi giorni la notizia della prima pronuncia di un Tribunale bellunese relativa alle conseguenze, sul rapporto di lavoro, del rifiuto di taluni infermieri e operatori sanitari di sottoporsi a vaccino.

Dalla lettura della pronuncia pare, però, che il caso non meriti l’attenzione che gli è stata data dai media.

Il Tribunale di Belluno si limita, infatti, ad avallare la scelta del datore di lavoro (due case di cura) di collocare unilateralmente in ferie i lavoratori, i quali avevano rifiutato di sottoporsi a vaccino; ciò, sulla scorta dell’art. 2109 c.c. che, come noto, assegna al datore di lavoro il potere di determinare il periodo di godimento delle ferie, sia pure tenendo conto degli interessi del lavoratore. Da tale punto di vista pare, dunque, finanche ultronea l’affermazione del Tribunale circa la prevalenza dell’«esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all’art. 2087 c.c.» sull’ «eventuale interesse del prestatore ad usufruire di un diverso periodo di ferie».

Vero è, tuttavia, che dalla pronuncia non traspare una questione centrale: se le ferie assegnate ai lavoratori fossero state, o no, già maturate dagli stessi (e, nei fatti, a quanto è dato di sapere, questo era il vero nodo sollevato dai ricorrenti). Non pare, infatti, che il datore di lavoro possa unilateralmente anticipare il godimento delle ferie non ancora maturate, la cui funzione di garantire – nel periodo di competenza – il recupero delle energie psicofisiche del lavoratore, sarebbe inevitabilmente frustrata.

La pronuncia in commento, dunque, lascia sul tappeto (e non affronta) le principali questioni sorte all’indomani dell’emergenza pandemica e della successiva attuazione della campagna vaccinale, per il personale sanitario. Ed in particolare la questione se – in difetto di un intervento legislativo ad hoc – il datore di lavoro possa o no imporre ai propri dipendenti (in particolare, al personale sanitario, per il quale il vaccino è già fruibile) di sottoporsi a vaccinazione e, in caso affermativo, con quali conseguenze in caso di rifiuto.

Parte degli interpreti, pur a fronte dell’art. 32 Cost., desume da una serie di frammenti normativi – o dall’autolimitazione, conseguente alla stipula del contratto di lavoro – un obbligo in tal senso (o un onere, a fronte di mansioni e di un contesto ambientale comportanti un “contatto sociale” di rilevante intensità) e ritiene che il rifiuto (a regime) del lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione sollecitata dal datore di lavoro, costituisca (fatte salve le situazioni soggettive di personale incompatibilità con il vaccino) un inadempimento imputabile, suscettibile di dare luogo quantomeno a sanzioni conservative o finanche al licenziamento disciplinare.

Si è peraltro sottolineato, convincentemente, che, anche a ritenere che il lavoratore non abbia obblighi di tale tipo, la mancanza di vaccinazione potrebbe comunque essere tale da impedire oggettivamente al lavoratore di continuare a lavorare in sicurezza, nell’ambiente di lavoro. Si tratterebbe, dunque, proprio di un’ipotesi assimilabile alla sopravvenuta inidoneità lavorativa o alla perdita dei requisiti abilitanti, la quale, in dati contesti organizzativi, potrebbe portare alla sospensione del lavoratore “inidoneo” ed eventualmente anche al licenziamento per ragioni oggettive (con onere di repêchage nei casi estremi in cui una ricollocazione non fosse possibile).

Si tratta, ad ogni modo di due strade “infungibili”, poiché l’“autoqualificazione” del recesso è preclusa al datore di lavoro.

 

a cura di Barbara de Mozzi – Associata di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Padova

 

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