Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha disposto la reintegra di un dirigente licenziato per motivi oggettivi in data 23 luglio 2020, ritenendo tale fattispecie coperta dal divieto di licenziamento di cui all’art. 46 del decreto c.d. “Cura Italia” (d.l. n. 18/2020, conv. in l.n. 27/2020).
La norma citata, nella formulazione applicabile al caso di specie, vietava, infatti, di “recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”, nonché di avviare le procedure di licenziamento collettivo disciplinate dalla legge n. 223 del 1991, per un periodo di cinque mesi decorrenti dall’entrata in vigore del decreto (ovvero, dal 17 marzo 2020).
L’iter argomentativo seguito dal Giudice di merito per estendere l’applicabilità del suddetto divieto anche ai dirigenti si fonda innanzitutto sulla ratio del c.d. “blocco” dei licenziamenti per ragioni oggettive, che viene definita “di ordine pubblico”.
Per evitare che le conseguenze della crisi economica generata dalla pandemia causino la perdita di innumerevoli posti di lavoro, infatti, la legislazione emergenziale ha introdotto un limite temporaneo alla libertà di impresa tutelata dall’art. 41 Cost., sulla base di un criterio di solidarietà sociale ai sensi dell’art. 2 Cost.; in una logica di scambio tale limitazione sarebbe, per così dire, “compensata” dalle misure di sostegno alle imprese e dagli ammortizzatori introdotti a causa del Covid-19.
L’esigenza di tutelare la conservazione del posto di lavoro, secondo il Giudice, diviene ancor più evidente con riferimento a quei soggetti, come, appunto, i dirigenti, che sono esclusi dal regime di necessaria giustificatezza del licenziamento previsto dall’art. 1 legge n. 604 del 1966.
I dirigenti, inoltre, rientrano pacificamente nel divieto di avvio di procedure di licenziamenti collettivi, in quanto l’art. 24, co. 1, legge n. 223 del 1991 estende loro la relativa disciplina.
Pertanto, secondo il Tribunale di Roma, sarebbe del tutto irragionevole considerare il divieto operante nei loro confronti soltanto in caso di licenziamento collettivo e non in caso di licenziamento individuale, venendosi altrimenti a creare un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri lavoratori. Una simile differenziazione, peraltro, non potrebbe basarsi sul diverso regime generale di recesso applicabile ai dirigenti, che anzi – essendo caratterizzato da una maggiore “elasticità” – esporrebbe tali soggetti ad un rischio di perdere il posto di lavoro più elevato rispetto a quello esistente per gli altri dipendenti.
Il Giudice, infine, fornisce un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 46 del decreto c.d. “Cura Italia” e ritiene che il riferimento all’art. 3 legge n. 604 del 1966, in esso contenuto, sia volto esclusivamente ad individuare la ragione alla base del recesso (ovvero, “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”), ma non anche a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto.
Alla luce delle considerazione sopra esposte, il Tribunale di Roma, dopo aver confermato l’applicabilità del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche ai dirigenti, ritiene che il recesso intimato in violazione del divieto – e, quindi, di una norma imperativa di legge – configuri un’ipotesi di nullità “virtuale” ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., con conseguente applicazione della tutela reale di cui all’art. 18, co. 1, St. lav.
a cura di Michela Lucchiari – Dottoranda di ricerca nell’Università degli Studi di Padova