La sentenza che si commenta verte sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore adibito ad un reparto – il magazzino di una ditta fabbricante prodotti ortopedici – soppresso a causa di un calo di fatturato e sulla conseguente decisione di ridurre la produzione e attuare una riorganizzazione aziendale. Tre, sostanzialmente, sono i punti toccati dalla pronuncia in commento: la prova dell’effettività della ragione organizzativa posta a base del recesso, nonché del nesso causale tra la suddetta ragione ed il licenziamento del lavoratore; l’assolvimento dell’obbligo di repêchage; la legittimità del mutamento di mansioni mediante il quale il lavoratore è stato adibito al reparto poi soppresso.
Ebbene, la sentenza si segnala, anzitutto, per la scrupolosa verifica effettuata dal giudice in merito all’effettività della ragione posta alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, consistente nella soppressione del reparto – e, quindi, anche del posto di lavoro – al quale era addetto il prestatore di lavoro. In particolare, il giudice di merito, seguendo l’indirizzo inaugurato da Cass., Sez. Lav., 7 dicembre 2016, n. 25201, dopo aver espressamente rammentato l’insindacabilità della scelta imprenditoriale adottata dal datore di lavoro ex art. 41, co. 1, Cost., ha verificato il presupposto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo accertando la veridicità del fatto posto alla base del medesimo, ovvero il calo di fatturato, calo comprovato dalla società datrice di lavoro mediante la produzione dei bilanci relativi agli anni 2016, 2017 e 2018. Del resto, proprio secondo Cass., Sez. Lav., n. 25201/2016, ove il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli, al datore di lavoro spetterà – ex art. 5 l. 15 luglio 1966, n. 604 – l’onere di dimostrarne la sussistenza. Della ricorrenza del nesso causale tra la scelta di sopprimere il reparto al quale era addetto il prestatore ed il licenziamento del medesimo, invece, si dirà in conclusione del presente commento.
Meritevole di segnalazione è anche l’indagine certosina condotta dal giudice di prime cure in sede di opposizione in merito all’assolvimento, da parte del datore di lavoro, del cosiddetto onere di ripescaggio. Prima di tutto, il giudice ha precisato i limiti propri di tale onere, il quale – in virtù della libertà d’iniziativa economica privata riconosciuta dall’art. 41, co. 1, Cost. – non può in ogni caso implicare rilevanti modifiche organizzative, né può essere tanto ampio da dover riguardare ogni possibile alternativa occupazionale, ma solo le posizioni esistenti al momento del licenziamento, appartenenti al livello di inquadramento del prestatore di lavoro – o eventualmente riconducibili a mansioni di livello inferiore – ed in ogni caso rientranti nel suo bagaglio professionale (cfr., ex multis, Cass., Sez. Lav., 3 dicembre 2019, n. 31520). Dopodiché, il giudice ha escluso la violazione dell’obbligo di repêchage, ritenendo provato l’adempimento del medesimo da parte del datore di lavoro, sul quale infatti grava l’onere della prova (v., per tutte, Cass., Sez. Lav., 22 marzo 2016, n. 5592), ben potendo essere data la dimostrazione del fatto negativo costituito dall’impossibile ricollocamento del lavoratore mediante la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo (cfr., ex plurimis, App. Roma 28 agosto 2020). Nel caso di specie, l’impossibile ricollocamento del lavoratore è stato dimostrato dalle successive assunzioni effettuate dal datore di lavoro, le quali sono avvenute a mesi di distanza dal licenziamento e per mansioni non fungibili, ovvero per posizioni non occupabili dal lavoratore licenziato. Condivisibile, dunque, è quel passaggio della sentenza dove si afferma che «non si può ragionevolmente estendere l’obbligo di repêchage sino al punto di pretendere che la società avrebbe dovuto prevedere, con mesi di anticipo, le future necessità occupazionali e, di volta in volta, adibire il ricorrente alle diverse mansioni, anche implicanti una adeguata formazione». Da questo punto di vista, pare che il giudice patavino abbia correttamente riformato la precedente decisione in forma di ordinanza, la quale aveva invece ravvisato una violazione dell’obbligo di repêchage.
Non altrettanto convincente è invece quella parte della sentenza che esclude l’illegittimità del demansionamento del lavoratore licenziato, demansionamento senza il quale il lavoratore non sarebbe stato adibito al reparto soppresso. Qui, infatti, il giudice si limita ad accertare che, anche prima del supposto demansionamento, ovvero quando era addetto al reparto calzoleria (dove si occupava della realizzazione di plantari), il lavoratore svolgeva comunque mansioni operaie, senza verificare se le nuove mansioni di magazziniere appartenessero, oltre che alla medesima categoria legale ex art. 2095 c.c., anche – come richiesto dall’art. 2103, co. 1, c.c., così come novellato dall’art. 3 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – allo stesso livello di inquadramento.
La verifica della legittimità del mutamento di mansioni costituisce, nel caso de quo, premessa indispensabile per valutare la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore, ragione per cui si tratta di un passaggio che avrebbe meritato maggiore attenzione. Infatti, nell’ipotesi in cui il mutamento di mansioni sia avvenuto al di fuori dei limiti previsti dall’art. 2103 c.c., l’illegittimità di tale provvedimento finirebbe col travolgere – a monte – la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Detto altrimenti, pur ricorrendo l’effettiva ragione organizzativa posta alla base del licenziamento, l’accertamento dell’illegittimità del demansionamento farebbe venir meno il nesso causale tra la suddetta ragione ed il licenziamento del lavoratore, poiché, laddove il datore di lavoro avesse correttamente esercitato il proprio ius variandi, il primo non sarebbe mai stato adibito al reparto poi soppresso. Inutile dire che, se le cose stesserò così, risultando soddisfatto il requisito dimensionale di cui all’art. 18, co. 8-9, l. 20 maggio 1970, n. 300, al prestatore di lavoro spetterebbe la tutela di cui al medesimo art. 18, co. 4, per manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. Corte cost. 1° aprile 2021, n. 59), posto che la ricorrenza del suddetto nesso causale è da considerarsi un elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 3 l. n. 604/1966.
A cura di Matteo Turrin
Dottore di ricerca in Diritto del lavoro e docente a contratto nell’Università degli Studi di Padova