L’art. 9 co. 1 del D.lgs. n. 23/2015 è incostituzionale?

Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 24 febbraio 2021, ha sollevato questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 9 comma 1 del d.lgs. n. 23/2015, disposizione che regola le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato da “piccole imprese” nei confronti di lavoratori il cui rapporto sia sorto a far data dal 7 marzo 2015. Secondo il giudice a quo, infatti, il regime sanzionatorio predisposto dalla predetta norma si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 comma 1, 4, 35 comma 1 della Costituzione nonché con l’art. 117 comma 1 Cost. in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea per una pluralità di ragioni.

Anzitutto, la misura dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 9 comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 non sarebbe idonea a garantire l’adeguatezza del risarcimento rispetto al pregiudizio patito dal lavoratore illegittimamente licenziato. Secondo la giurisprudenza della Consulta, sebbene il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, possa prevedere un meccanismo di tutela contro i licenziamenti anche solo risarcitorio-monetario, il risarcimento deve essere necessariamente adeguato e ragionevole, pena l’incostituzionalità della disposizione che lo preveda. Invece, l’indennità di cui all’art. 9 comma 1 – la quale non può superare le sei mensilità – non garantirebbe un’equilibrata compensazione del pregiudizio in ragione della sua estrema esiguità.

Il Giudice, inoltre, ritiene che la disposizione in questione sarebbe viziata da incostituzionalità in quanto il tetto massimo di sei mensilità costituirebbe una reazione sanzionatoria per nulla idonea a correggere il disequilibrio di fatto esistente nel rapporto di lavoro e a dissuadere la parte più forte, ovvero il datore di lavoro, dall’adottare un licenziamento ingiustificato che avrebbe un costo aziendale assai contenuto.

Secondo il Tribunale di Roma, poi, il sistema di tutela delineato dall’art. 9 comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 non consentirebbe al giudice di procedere a un’adeguata personalizzazione del risarcimento rispetto alle caratteristiche proprie del caso concreto. Infatti, il divario tra la misura minima e massima dell’indennità (ricompresa tra le tre e le sei mensilità) risulterebbe talmente limitato da finire per sanzionare in modo pressoché uguale violazioni non solo produttive di danni diseguali, ma di gravità che possono essere, a loro volta, totalmente differenti.

Particolarmente suggestiva è anche la rilevazione in ordine a come, in un’economia sempre più digitalizzata, il criterio costituito dal numero dei dipendenti non sarebbe più attuale (si pensi che un colosso come Instagram nel 2015 aveva solo tredici dipendenti), risultando invece più significativo il criterio delle dimensioni dell’impresa: criterio “più elastico rispetto a quello del solo numero dei dipendenti in quanto riferibile anche ai dati economico/finanziari ricavabili dai bilanci”.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Tribunale di Roma ha, quindi, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 comma 1 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, con riguardo alle parole «ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, … l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art. 3 comma 1, … è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».

 

a cura di Massimiliano Rosa – Dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Padova

 

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